Funamboli

Racconto finalista al concorso letterario Luberg 2022.

Ispirato ad una storia parzialmente vera.

Due appunti:

  1. Schema di convenzione - giovedì;
  2. Mai fidarsi degli uomini in smoking e delle donne che sanno portare un tailleur.

Solo questo suggeriva il post-it giallognolo incollato all’angolo inferiore destro dello schermo, e Leo lo leggeva con un’intensità esagerata. Passava lo sguardo dalle scritte in un maiuscoletto disordinato alle persone che sedevano di fronte a lui, all’altro capo della scrivania, e poi tornava indietro, in un’oscillazione perpetua. Dall’altra parte – realizzò – doveva sembrare che stesse confrontando le loro facce con delle foto di ricercati. Invece ai loro volti quasi non faceva caso, perché l’unico che si immaginava di avere di fronte era il volto di suo padre, che ossessivamente gli ripeteva quel secondo promemoria: la più importante lezione che gli avesse tramandato in tutta la sua esistenza.

Doveva essere per quell’avviso ormai stampato nei suoi occhi che quei due, al loro ingresso nel suo ufficio, gli avevano ispirato una fiducia istintiva. Le stropicciature maldestre sul vestito di lui, il progressivo allentamento della cravatta, la camicia in fuga dalla cintura… Ed il tailleur di lei che, seppur in perfetto ordine, avrebbe accecato chiunque lo avesse fissato per più di tre secondi. Sarà stata la luce del tramonto che caricava la stanza di un’inopportuna malinconia, sarà stata la stanchezza che a fine giornata lo travolgeva di punto in bianco, ma Leo aveva l’impressione che non fossero lì per discutere di affari, bensì per invitarlo a una festa di matrimonio dove tutti erano già ubriachi fradici.

Quale fosse il motivo che li spingeva da lui, gli era ovviamente già noto: la novità nel suo ruolo di responsabile dei servizi sociali raramente era motivo di sollievo, e in più le decisioni erano già state prese. Era curioso, però, dei termini in cui avrebbero presentato la loro proposta. Erano giovani, molto giovani, e per questo si aspettava di tutto. Mai giudicare un libro dalla copertina - si dice - ma non poteva opporsi all’impressione che si era spontaneamente formata nella sua testa. La fiducia che pure sarebbe stato pronto a confermare era contaminata da un presagio di confusione e narcisismo. Un presagio che cresceva nel silenzio calato sulla stanza.

Rivolgendosi per automatismo alla ragazza, che dei due sembrava la più sobria, li invitò a parlare, ma non fece in tempo a finire la frase che l’altro si era già imposto.

- C’è ancora una persona che dobbiamo aspettare, – disse - Lui è la Mente, capisce?

Leo realizzò che gli occhi dovevano aver tradito la sua contrarietà, perché i due si guardarono come per dire “tanto aspettiamo lo stesso”. “È l’ultimo ricevimento della giornata, fatemi andare a casa, non voglio palle”. Non l’aveva detto ad alta voce - almeno, ne era abbastanza sicuro - ma gli veniva ora il sospetto che quei due fossero delle specie di telepati in grado di leggere il suo pensiero. Anche quell’indolenza reattiva gli era stata tramandata da suo padre, ed ora un po’ si pentiva di averla appresa.
- L’ufficio chiude alle 18 – finì per dire nel tono più diplomatico che gli riuscisse, e avrebbe voluto aggiungere “crollasse il mondo, le regole sono regole”.

La persona che attendevano bussò 15 minuti più tardi. Quindici minuti in cui Leo aveva appreso senza interesse che quei due erano fratello e sorella, e che entrambi avevano da poco terminato gli studi presso una nota università privata. Tutt’altro che privi di interesse suonavano invece i colpi alla porta. E quando un omone rotondo, dai capelli nerissimi, a spazzola, e la pancia che metteva alla prova i bottoni di una camicia azzurra perfettamente stirata, entrò con disinvoltura, si spiegò la forza del suono. Distratto dal suo aspetto, e dagli occhiali da sole che inutilmente portava anche all’interno, Leo si era quasi dimenticato della propria irritazione. Esigeva delle scuse, fino a ripromettersi di cacciarli seduta stante se non le avesse ricevute, eppure sentiva una nuova, inedita curiosità. Per quanto trovasse il suo aspetto in contrasto con le aspettative, ci doveva pur essere un motivo per cui era stato chiamato “La Mente”.

- Chiedo umilmente scusa per il ritardo. Non vorrei certo offrire un’immagine sbagliata di noi, signor… - esordì La Mente senza concludere - E voi, avete fatto aspettare il signore per tutto questo tempo?!

Era, nei modi quanto nelle parole, di una decisione e una leziosità piacevoli. Così piacevoli che Leo sentiva la sua rabbia soddisfatta. In fondo si era scusato, aveva costretto quei due a farlo e, soprattutto, li aveva convinti ad iniziare. Ma non era l’autorità del capo a risuonare nella sua voce. Era l’autorità del padre. E la voce, non soltanto il timbro ma anche l’articolazione e il saliscendi, confermava un legame più profondo. Affrontare famiglie era il suo pane quotidiano, ma qualcosa lo intimoriva, forse lo stesso presagio di prima, forse una forza ancora da scoprire.

Come previsto, quella sera l’ufficio venne chiuso più tardi del solito. Quindici minuti. “Ecco”, pensò stizzito Leo mentre si lasciava alle spalle l’ultima porta, “e per di più per una proposta… una proposta che…”. I piedi avanzavano automaticamente, quasi seguendosi a vicenda, lungo una trave di equilibrio dalla quale i pensieri cercavano invano di farlo cadere. Era stranito e, malgrado non avesse ragione di esserlo, vagamente offeso. E non per il ritardo, né per la proposta in sé, e nemmeno per i modi sempre piacevolmente leziosi e decisi. In verità, più si interrogava e più si rendeva conto di non sapere davvero cosa lo facesse sentire così. Ricostruiva con la mente il viso del padre, e poi quelli dei ragazzi, i figli che ricalcavano così bene il ghigno tiepido dell’uomo ben educato. E la ricostruzione portava con sé le loro voci, e quel linguaggio da avventurieri del business che forse… forse era proprio quello a dargli sui nervi. Al contenuto della presentazione non aveva in effetti prestato molta attenzione, ma d’altronde a lui sarebbe toccato solo mettere una firma, un parere tecnico, mentre le decisioni, quelle vere, erano già state prese. Decisamente maggior attenzione aveva prestato alla forma, e soprattutto, dopo che aveva intuito il legame che sussisteva tra loro, a quella sorta di esperimento genetico che era l’eredità del linguaggio. Un’eredità totale, detassata, che ricuciva il divario anagrafico con termini gergali rigorosamente in lingua straniera. Se erano arrivati fin lì, a proporre il loro concept di fronte al responsabile dei servizi sociali della città, dovevano senza dubbio un ringraziamento a quel mentor che li aveva instradati verso il loro ikigai. E per quanto svergognatamente elitaria, risibile e vacua potesse essere qualunque idea avessero proposto, la fede che trasudavano per essa faceva invidia. Ora capiva perché lo chiamavano La Mente.

Era praticamente arrivato a casa, e come sempre a una ventina di metri dall’arrivo iniziava a frugarsi nelle tasche alla ricerca della chiave corretta. Mentre le tastava una ad una, si accorse che qualcosa era cambiato nel paesaggio intorno al suo cancello. Seduto in cima al muro del cortile di fronte, un uomo lo fissava mesto, l’instabilità del capo e gli occhi lucidi a confessare un bicchiere di troppo. “Ehi tu, che fai, scendi di lì!”, era in procinto di urlare, ma tacque. Tacque perché lo aveva riconosciuto. Lui lo conosceva come Mubi, anche se era certo che quello fosse solo un nomignolo, una scorciatoia per evitare che il suo vero nome finisse storpiato, piegato, accartocciato, strappato. Stimava che avesse intorno ai 30 anni, senza contare il contributo della fatica nell’invecchiare il suo aspetto, ed era almeno da un paio che consegnava a quel cancello con il suo furgone blu sempre luccicante. Mubi aspettò che Leo si avvicinasse per biascicare qualche parola nell’italiano migliore che gli riuscisse. Doleva ammettere che, fosse per l’accento, per le lacrime o per una combinazione dei due e dell’ebbrezza, capirlo era impossibile. Lavoro, casa, vivere… una pioggia rada di nomi e infiniti dai raccordi labili. E in sottofondo, una richiesta d’aiuto, o almeno di compassione. Nella testa di Leo, però, non spuntavano parole di conforto. Spuntava un bizzarro parallelo. Era passato, in meno di un’ora, dalla sovrabbondanza di parole alla loro assenza, dall’esempio compiuto della loro forza alla manifestazione della loro impotenza, dalla chiesa della fede nel progresso alla cripta dei sogni tramandati da nessuno. Che cosa ci fosse a suggerirgli l’immagine delle rette parallele, non capiva. Arrivava al massimo alla conclusione che in entrambi i casi, in un certo qual senso, si trattasse di un tirocinio nella società, e che entrambi i casi sarebbero giunti, per motivi inconciliabili, nel suo ufficio, sottoponendosi a loro insaputa ad un severo confronto con le raccomandazioni di suo padre. Un padre, chissà se Mubi ancora ne aveva uno, e chissà se gli aveva mai insegnato a guidare un furgone. Chissà se, come l’altro, avrebbe provato ad insegnarli a vestire uno smoking. E chissà se avrebbe saputo portarlo con la stessa leziosità e la stessa decisione.

All’esterno doveva essere apparso inebetito, perché, quando si risvegliò dal flusso di pensieri, Mubi se n’era già andato, forse stanco di aspettare la compassione che chiedeva con gli occhi. Mentre rincasava, Leo pregò di rivederlo. Pregò che prima o poi tornasse da lui con un pacco tra le braccia e una parola in più per rispondere a tutti i suoi “chissà”. E pregò, nello stesso momento, di rivedere anche gli altri, quei due da cui continuava ad essere inspiegabilmente offeso e affascinato. La loro forza – pensò – impallidiva di fronte a quella di Mubi. Lui che non aveva una fonte d’ispirazione, né sogni di gloria; lui che era finito a fare il corriere perché quello passava in convento; lui che si sentiva ripetere che avrebbe dovuto imparare, e, mentre ancora si chiedeva che cosa, era stato lasciato dov’era. Difficile - si disse - che volesse fare l’equilibrista.